Quando Di Bello mette in bocca il fischietto e gli dà fiato per tre volte, ogni tifoso romanista mastica un sorriso amaro, che si di rimpianto più che di felicità. Eppure alla vigilia praticamente chiunque avrebbe messo la sua firma su un 2-2 contro la Juventus in un momento di confusione totale come quello che ha accompagnato la Roma alla partita.
Questione di prospettiva. Questione di relativismo del calcio che ieri più che mai si è manifestato davanti agli occhi di tutti. Compresi i 1000 tifosi presenti, che hanno emanato un calore vitale per una squadra che pareva dovesse stramazzare da un momento all’altro. E invece i giallorossi di Fonseca hanno mostrato una facciata che non si vedeva da un po’ di tempo. Hanno trovato compattezza nella difficoltà, disciplina nel rumore e certezze tra i dubbi, sfoderando una prestazione che, a livello di meritocrazia, avrebbe dovuto far rima con la vittoria. Il calcio però non è solo una questione di meritocrazia, ma anche e soprattutto di episodi. Di gol fatti e gol sbagliati. Di pali presi e mani mangiate.
E quindi se al triplice fischio la bocca di tutti i supporter giallorossi si è riempita di amaro, è semplicemente perché per almeno 62 minuti la Roma ha meritato di abbracciare i primi 3 punti in campionato. Ma poi c’è stata la mezz’ora finale.
62′
Come in tutte le storie degne di nota, c’è sempre un “turning point”, un momento cruciale in cui la narrazione viene sconvolta da un evento. In questo caso un possibile accadimento positivo si è trasformato in un inaspettato peso sulle spalle dei giocatori in maglia giallorossa. L’entrata di Rabiot ai danni di Mkhitaryan che gli è valsa il secondo giallo (il primo sulla “parata” che ha generato il rigore di Veretout) ha letteralmente falciato le gambe della Roma.
Che fino a quel momento appariva stabile e concreta. Uno stile di gioco sobrio, basato sull’attenzione difensiva, il filtro a centrocampo e l’estro dei due trequartisti più le galoppate di Spinazzola e l’essenza poliedrica di Dzeko. Un piano partita semplice ma efficace. Tanto che nei primi 45 minuti la Roma ha concesso agli uomini di Pirlo solo un’occasione su azione e il gol su rigore. Per il resto nessuna paturnia, anzi la possibilità di rendere il vantaggio di una lunghezza anche più corposo.
Poi il fallo di Rabiot e il cambio della prospettiva. Se fino al 62′ la Roma stava facendo un’impresa con i fari spenti, buttando il cuore oltre l’ostacolo e sorprendendo tutti, dalla superiorità numeri in poi si sono accesi tutti i riflettori che hanno fatto evaporare l’effetto sorpresa. Non era più una possibilità, quella di vincere, ma un dovere legittimato dalle prestazioni viste fino a quel momento.
Doveva essere una marcia trionfale, è stata catarsi.
POLLICE VERSO?
A fine partita il pollice resta a mezz’aria, incerto se premiare i 60 minuti o condannare i 30. Nell’ultima mezz’ora la Roma ha smesso di creare, non è riuscita a dettare i tempi di gioco che preferiva, ha visto la terra a pochi metri ma si è dimenticata di nuotare per raggiungerla. Si è beffata con le sue stesse mani. Il cross di Danilo che porta al gol doveva essere neutralizzato prima ancora che il brasiliano potesse mettere la palla in mezzo, ma vedere la non-marcatura dei difensori giallorossi sullo spicco aereo di Ronaldo è da matita blu.
Per il resto si è vista tanta carne al fuoco. Ibañez al centro ha annientato Morata, anticipandolo di testa e di piede e dimostrando una sicurezza da veterano. Cosa che non è, dato che ha appena 21 anni e ha iniziato a giocare stabilmente solo a luglio. Bene anche Mancini e l’esordio di Kumbulla, che deve migliorare con la palla tra i piedi ma che ha dimostrato una padronanza non scontata per un classe 2000 alla prima con una nuova maglia e contro Ronaldo, Kulusevski e compagnia.
Pellegrini davanti alla difesa è un’idea da perpetrare. Al di là del pessimo errore che ha causato il rigore, il numero 7 è stato presente nella partita molto più di rispetto a quando gioca sulla trequarti. Tanta interdizione, tanta corsa e un buon giro palla. Sarebbe un peccato non rivederlo più a causa dell’ingenuità nell’area di rigore.
Poi la triade offensiva: Pedro e Mkhitaryan sono i due più “anziani” dopo Dzeko ma sono i due che, dati alla mano, hanno corso più degli altri. Applicazione, esperienza e tanta qualità. Peccato solo per il pizzico di lucidità che è mancato all’armeno in un paio di occasioni per fare male.
Infine va sbrogliata la domanda fulcro: e Dzeko? Dzeko è il capitano della Roma, e anche ieri lo ha dimostrato. Impegno, centralità, sponde, botte date e prese. Mancano i gol, è vero, e quei due sbagliati pesano come un macigno. Ma il suo peso specifico là in mezzo è tutto ciò che sarebbe potuto mancare alla Roma se fosse andato alla Juventus.
Ma Dzeko è ancora il capitano della Roma.
Di una Roma viva.
Che alla vigilia avrebbe dovuto perdere e in teoria avrebbe dovuto vincere.
E che in pratica ha pareggiato.
Lasciando a tutti un sorriso amaro sulle labbra.
Lasciando un pollice a mezz’aria che non condanna e non assolve.