Un’imbattibilità sul campo che dura da quel Roma-Siviglia di Duisburg. Una squadra che convince sempre di più, partita dopo partita, risultato utile dopo risultato utile, cambiando pelle e interpreti a seconda dei momenti e delle situazioni che affronta. La vittoria contro il Cluj, in tal senso, è stata particolarmente emblematica. Perché, pur trovandosi di fronte un avversario insormontabile, la Roma non ha minimamente risentito delle tante assenze in difesa. Di fatto, il terzetto composto da Juan Jesus, Cristante e Spinazzola, nell’inedito ruolo di braccetto, non ha mai patito l’invero spento attacco di Petrescu. Nella nebbia di Cluj, non si è quasi notato che, ad assicurarsi la qualificazione ai sedicesimi di Europa League, sia stata un Roma più che rimaneggiata, con le seconde (se non terze) linee e un classe 2002 al debutto europeo. Ma se la squadra vive un momento assolutamente magico, il merito principale non può non essere di chi la guida. La Roma di oggi è più che mai la Roma di Paulo Fonseca. Ma di un Paulo Fonseca molto diverso da quello sbarcato nella Capitale poco più di un anno fa. La squadra in crescita e in fiducia di oggi è quella di un tecnico che ha saputo adattare sé stesso e le proprie convinzioni al contesto, non cadendo nell’errore di provare a plasmare il contesto partendo dalle proprie convinzioni. Concetti che lo stesso Fonseca ha espresso nel corso di una lunga intervista a Quarantena da Bola, proprio alla vigilia dell’ultimo match di Europa League. Un’intervista che è quasi un manifesto degli ultimi mesi di Paulo Fonseca sulla panchina giallorossa. Mesi di evoluzione e adattamenti, ma sempre con idee precise in testa. Mesi di camaleontismo fonsechiano.
Evoluzione
A partire dal suo processo di evoluzione “italiana”. “La mia evoluzione – spiega Fonseca nei primi minuti dell’intervista – è stata naturale. Ciò che sono oggi è frutto delle esperienze, anche quelle minori, che ho avuto in passato. Non sono l’allenatore che ero prima, e ne sono orgoglioso. Non sono neanche l’allenatore dell’anno scorso: mi sono evoluto soprattutto a livello tattico. In questi anni in Italia ho appreso tanto. Abbiamo un’immagine del calcio italiano come un calcio molto tattico, e lo è realmente. Ogni partita è diversa, tutte le squadre cambiano modulo e sono ben organizzate sotto il profilo difensivo.” Fonseca fa dunque un esempio tanto illustre quanto lontanissimo dal suo modo di intendere il calcio. “Ora che sono qui – dice – comincio a capire il modo di giocare dell’Inter di Mourinho e la predisposizione ai momenti difensivi e al rigore tattico. Questo mi aiuta a capire come quell’Inter abbia vinto. Io sono sempre stato ossessionato dal possesso palla, qui ho imparato ad apprezzare altri momenti, come la transizione offensiva.”
Adattamento
Ed ecco il passaggio chiave dell’intervista: per Fonseca, infatti, “siamo moderni e ci dobbiamo adattare. Dobbiamo renderci conto che, se ci chiudiamo nelle nostre convinzioni, diventa difficile adattarci a contesti complessi come quello italiano. Essere offensivi è la cosa fondamentale che ci interessa. In settimana mi hanno inviato un articolo che diceva che, nelle prime 60 partite, sono stato l’allenatore più offensivo negli ultimi 90 anni della Roma. Penso sia entusiasmante avere una squadra offensiva, che sa segnare. Un altro studio dice che l’anno scorso siamo stati la seconda squadra dietro l’Atalanta a creare più occasioni da gol. Credo questo sia un marchio che ci contraddistingue: l’audacia, il coraggio. L’immagine che abbiamo del calcio italiano è sbagliata: diciamo che è molto tattico e quindi difensivo. È vero che le squadre sono brave difensivamente, ma durante il lockdown ho fatto uno studio e ho verificato che la Serie A assomiglia alla Bundesliga e alla Premier League in quanto a concretezza offensiva. Il rigore difensivo non è associato al fatto che tutte le squadre si difendano basse. Il momento in cui si perde la palla, cioè la transizione difensiva, è un momento importantissimo qui.”
Idee
Di conseguenza, per il tecnico portoghese, “è difficile definire il nostro modello di gioco, che è sempre in costante evoluzione. Non posso dire di aver realizzato un modello di gioco a Roma. Quello che avevo in testa quando sono arrivato è molto distante da ciò che siamo oggi. Abbiamo imparato dall’esperienza, dalle altre squadre. Non esistono idee perfette, esistono idee che portano risultati e idee che non portano risultati”. Per esempio, “in Portogallo non sopportiamo l’uomo contro uomo, ma qui in Italia ci sono squadre che lo fanno benissimo e che fanno risultati. A me non piace, ma ho giocato contro l’Hellas Verona che lo fa benissimo e ha ottenuto ottimi risultati. Ci sono momenti delle partite in cui si può giocare anche uomo contro uomo, come quando abbiamo tre centrali e ognuno sceglie il suo avversario diretto. Il gioco in Italia è principalmente strategico. Lavoro e preparo strategie per sorprendere sempre gli avversari. Allenare in Italia ovviamente non è la stessa cosa che allenare in Ucraina. È impensabile costruire due squadre uguali in due paesi differenti. Bisogna essere aperti ai contesti differenti. Non si può pensare di trasportare gli stessi principi da un paese a un altro“.