Se c’è un calciatore della Roma che più degli altri ha gli occhi della piazza addosso, quello è Lorenzo Pellegrini. Romano e romanista, tornato a casa nel 2017-18 dopo una stagione nel Sassuolo, incarna quella favola che piace tanto ai tifosi: il figlio prodigo che si è separato dalla sua città per tornarvi e lasciare il segno.
Quella narrazione che c’è stata già per altri tocca, ora, anche a lui. Senza riavvolgere il nastro fino a tempi più lontani, le sue orme si sovrappongono a quelle di Totti e De Rossi, coloro che hanno lasciato il proprio nome impresso a fuoco sulla pelle di ogni tifoso. Mandando ancora un po’ avanti il filmato si arriva anche a Florenzi, il quale è, forse, il profilo narrativo che più gli somiglia. Romano e romanista anche lui, si fa le ossa per due stagioni nel Crotone, poi torna a casa e si ricongiunge all’affetto della sua gente.
Qualcosa nella narrazione di Alessandro Florenzi, tuttavia, si è inceppato: dall’essere destinato a raccogliere la fascia lasciata da De Rossi passa all’essere inviso al pubblico romanista per richieste di rinnovo considerate troppo alte. Insieme alle prestazioni in campo via via meno brillanti e a un carisma decisamente meno splendente dei suoi predecessori, la narrazione di Florenzi capitano romano e romanista si spegne di botto.
Stella spenta e un altro dei tanti
Mentre si consumava la parabola di Florenzi, il modello narrativo si incentra su Lorenzo Pellegrini. È la stagione successiva al ritiro di Totti e la fascia la indossa De Rossi; Pellegrini è il “futuro capitano” al quadrato, dopo Florenzi. Lorenzo Pellegrini all’inizio viene raccontato come una stella spenta che necessita di ancora un po’ di tempo per brillare. L’impressione è che gli si perdoni tutto: le palle perse, le eccessive leziosità, l’imprecisione sotto porta, la scarsa propensione a rubare il pallone. Gli si perdona tutto perché deve crescere; perché non è un incontrista, eppure là a centrocampo deve fare a sportellate. Gli si perdona tutto perché ha quel sorriso genuino di un giovane adulto che, a poco più di vent’anni, ha una moglie e una figlia e rappresenta la squadra che ha amato da sempre. Gli si perdona tutto perché in campo non si risparmia e perché quando si accende, si prende la scena.
La retorica del capitano dell’avvenire giallorosso gli usa clemenza, come succede con tutti i figli di Roma. In questa città, però, il credito con la pazienza non è infinito. L’anno successivo Di Francesco lo impiega sia come centrale di centrocampo che come trequartista, ma non sembra essere mai completamente a suo agio. La densità a centrocampo lo costringe a rinunciare al suo estro; sulla trequarti, invece, potrebbe forse esprimersi al meglio ma manca spesso di precisione e cattiveria. La narrazione, come si sa, si plasma sugli alti e bassi, così Lorenzo Pellegrini diventa un altro dei tanti con l’aggravante di essere romano e romanista.
Fuoco di paglia e figlio di Roma
Criticato per essere discontinuo e incostante, per cercare le giocate complesse anche a fronte di scelte più semplici, per essere poco più di un fuoco di paglia, lui traccia in silenzio la propria strada fino a Fonseca. Nella scorsa stagione il tecnico portoghese lo rigenera come trequartista, gli mette alle spalle un centrocampo ordinato e solido e accanto due ali abili ad allargare e stringere il campo. Il risultato sono tredici assist in stagione (e tre gol) e una nuova dimensione tattica con anche migliori apporti in fase di interdizione. Il pubblico di Roma, però, è cauto e disilluso: la cicatrice di De Rossi è ancora fresca e le prestazioni del numero 7 si vestono di chiaroscuri che non scalfiscono la durezza della narrazione.
Quest’anno la musica cambia ancora. Fonseca lo ha allontanato dalla porta e abbassato in una dimensione tattica in cui forse sacrifica la fantasia, ma guadagna in ordine e rigore. A centrocampo Lorenzo Pellegrini smista con pazienza i palloni recuperati da Veretout e, ove possibile, non lesina le fughe in avanti per inserirsi o premiare i compagni. Questa nuova veste contamina la sua rifinitura con la manovalanza e restituisce prestazioni quasi silenti, dietro le quinte, accese da qualche fiammata improvvisa. Gli occhi della piazza, adesso, stanno pian piano riscoprendo il piacere di vederlo in campo e le labbra – e le penne – stanno timidamente attingendo di nuovo a quella retorica del figlio di Roma destinato alla sempiterna gloria.
Sulle orme di De Rossi
Dei suoi predecessori, Lorenzo Pellegrini sembra non essere né come Totti né come Florenzi. L’eterno numero 10, che probabilmente non verrà mai scalzato dall’Olimpo giallorosso, si è via via lasciato sopraffare dalla narrazione. L’amore di Roma, la venerazione per il monumento calcistico in persona, ne hanno man mano fagocitato e ingigantito l’ego. Il terzino ora al PSG, invece, sembra essere stato schiacciato dalla retorica di una piazza incandescente che ama intensamente ma distrugge in modo altrettanto feroce.
Il profilo che più si adatta a Pellegrini, allora, sembra essere – a sorpresa – quello di De Rossi. L’identificazione viscerale con i tifosi è qualcosa che, forse, il numero 7 non avrà mai, ma la pressione sì. La pressione a essere – o a diventare – il simbolo della romanità in campo crepita nell’aria ed è una dimensione con cui è necessario misurarsi. De Rossi, incarnazione dell’appartenenza di una città a una squadra, si è sempre confrontato con tutto questo in modo equilibrato. Mai ha lasciato che divenisse più grande di lui, mai se ne è posto al di sotto ma sempre al di sopra. Pellegrini pare finora percorrere la strada già tracciata dal numero 16: togliere forza alla narrazione che lo riguarda per ottenerne lui stesso.