La serata più romanista di tutte: 10 aprile 2018

La verità è che non ci credevo per niente.

C’era, quella sì, una piccola flebile fiammella di speranza perché se sei romanista quella non manca mai.
Ma era davvero una cosa minima, irrisoria, sovrastata da un pensiero razionale che diceva sempre la stessa cosa: non potremo mai farcela. Questo benedetto pensiero razionale era davvero implacabile, continuo, come un martello che batte un chiodo lungo come l’infinito. Uno strazio che spegneva l’entusiasmo, frustrava per l’ennesima volta il sogno e l’aspirazione.
Non che potesse essere altrimenti: all’andata ne avevamo presi ben quattro e fatto, alla fine, uno. Così piccolo quel gol, così misero nella sua apparente inutilità.
Sia chiaro, guardando ai freddi numeri un gol può davvero significare poco o nulla a volte; ma preso singolarmente, estrapolato da ogni contesto legato al risultato, secondo me vale sempre qualcosa.
E succede che poi una volta, magari solo una, un gol che sembrava quasi superfluo diventi invece decisivo. Perché poi lo sport, la vita, sono così.

Andando con ordine: ai quarti di Champions League, annata 2017/2018, la Roma aveva pescato il Barcellona. Erano tutte forti le squadre in lizza, perché quando resti in otto non puoi pretendere mica di giocare contro chissà chi. Anzi sulla carta noi e il Siviglia eravamo quelli da prendere per le altre sei, il turno facile e con poche insidie. Ricordo che in Spagna il sorteggio fu accolto bene, con toni quasi trionfalistici. Li capisco, chi era la Roma di fronte ai blaugrana? C’era da essere contenti dal loro punto di vista.
E tutto sembrò confermarsi nella partita giocata in Catalogna: 4-1, tutti a casa, il ritorno sarebbe stata una formalità.
Quell’anno avevo l’abbonamento in Champions, con mio fratello e un caro amico. Curva Sud, non centrale ma nel “settorino” vicino alla Monte Mario. Avevamo visto fino quel momento una marcia quasi trionfale tra le mura amiche: pareggio con l’Atletico Madrid, roboante vittoria per 3-0 contro il Chelsea, ancora vittoria e passaggio del girone da primi contro il Qarabag. Era poi arrivata la vittoria agli ottavi contro lo Shakthar: un percorso oggettivamente ottimo per una squadra non così abituata a palcoscenici di un certo tipo. Poi la citata sconfitta in Catalogna e l’attesa (in realtà mica tanto) per il match di ritorno in casa.

Ricordo distintamente che tra i romanisti non ci credeva davvero quasi nessuno: c’era solo qualche inguaribile ottimista che veniva tacciato di pazzia e distaccamento dalla realtà.
Ma ti pare che la Roma possa vincere 3-0 contro quella squadra di marziani? Messi, Suarez, Iniesta, Ter Stegen…devo andare avanti? Un mucchio di fenomeni con in mezzo il fenomeno più fenomeno di tutti. Roba da matti anche solo pensarlo. Un po’ di serietà.
Io avevo la mia convinzione, il mio mantra ripetuto ad alta voce per autoconvincermi tutti i giorni, manco fossi la D’Urso che dice il rosario prima di andare a dormire: scendiamo in campo per fare bella figura e uscire dalla competizione a testa alta. Magari vinciamo pure dai, sarebbe bello, farebbe piacere. Dai dai quello sì che può succedere. Dai.Embed from Getty Images

E’il giorno: 10 di aprile, anno del signore 2018.
Ritualità classica di ogni prepartita di quell’anno, una specie di merenda tanto per non stare a stomaco vuoto poi vestizione, sciarpa di ordinanza e via con lo scooter direzione Olimpico. Adrenalina a livelli medio-bassi ma comunque un po’ di ansietta, perché vuoi o non vuoi gioca la Roma, e a me ogni tanto l’ansietta mi viene pure alle amichevoli estive. Poi avevo comunque la curiosità di rivedere dal vivo il Barcellona (anche se era già capitato), da amante del calcio.
Insomma fino all’arrivo allo Stadio ero tranquillo, molto più del mio solito.

Poi però è successo qualcosa. Una volta parcheggiato il motorino (rigorosamente guidato da mio fratello come da tradizione) ci siamo resi conto del fiume umano di gente che si stava riversando allo Stadio. Sapevamo del pienone però poi vederlo fa un altro effetto. Ed era anche relativamente presto rispetto all’inizio del match fissato per le 20.45.
E’successo che guardandomi intorno ho visto le facce della gente e ho sentito che zitti zitti ci credevano. E poi manco tanto zitti perché era tutto un “Daje Roma”, “Je la famo”, “Ribbartamoli”.
I cori della Sud si sentivano a chilometri di distanza, c’era la classica atmosfera delle grandi occasioni. Ho sentito le farfalle nello stomaco, proprio come quelle quando ti innamori. Anche se io sta squadra la amo da sempre.
Così all’ingresso del Tempio dove si svolge quel meraviglioso rito laico che è il calcio, io, miscredente di quella serata, ho iniziato a ricredermi. Ho sentito i dubbi della vigilia abbandonarmi, ho sentito la chiamata del Romanismo. I battiti sono saliti subito, e una volta preso posto il mio mood era totalmente cambiato: ci credevo anche io.

Riscaldamento della squadra coperti da cori, veri e propri boati per trasmettere ai calciatori che eravamo tutti in campo con loro. Intanto iniziavano le classiche “amicizie da stadio”, quelle coi vicini di posto, che poi erano sempre gli stessi quell’anno, visto l’abbonamento. Ottimismo a palate, poco equilibrio, adrenalina pura, qualche birra. Tutto sapeva di Roma.

Inno Champions e si parte. Ho un ricordo nitidissimo, proprio in apertura, di un fallaccio di Juan Jesus su Messi: era molto lontano, verso il centrocampo, ma nella mia testa sento ancora il rumore del calcio, del piede che colpisce un pezzo di gamba, l’osso: stonk. Credo di averlo immaginato ma ricordo di aver goduto: qui non se passa zio, manco se te chiami Messi. Per un breve momento siamo stati tutti Juan Jesus, uno degli eroi (per caso) di quella notte.
Minuto 6, palla fatta girare dalla Roma a centrocampo, arriva sui piedi di De Rossi che si gira e lancia lungo per Dzeko, che supera i centrali del Barcellona e con un tocco beffardo supera Ter Stegen in uscita: 1-0. Boato pazzesco, mo ce credemo tutti, pure i più restii.
Il primo tempo è quasi un monologo con qualche occasione anche netta, fallita da Schick (limortaccisua, con affetto). Si gioca un calcio stupendo, si dominano i campioni. Finisce la frazione col vantaggio e la sensazione che si potesse fare un gol in più.Embed from Getty Images

Secondo tempo, la squadra attacca sotto la Sud e finalmente posso vedere un po’ meglio, perché, e chi frequenta lo Stadio lo sa, purtroppo dalle Curve dell’Olimpico non si vede una sega, cioè le cose te le immagini, le intuisci, vai a tentativi. Capisci giusto i gol perché esultano tutti e vedi i giocatori che si abbracciano, ma sempre con quella frazione di ritardo, come se stessi in mini-differita. Bellissimo.

Copione uguale al primo con la Roma che gioca meglio, non concede praticamente nulla e attacca. Minuto 56’, sempre lancio verso Dzeko stavolta di Nainggolan; con Edin che fa spallate con Piquè, lo aggira e viene steso in modo netto: un rigore solare, cioè che tipo anche Bocelli avrebbe visto.
Invece per qualche interminabile secondo l’arbitro non fa niente e io già stavo in modalità #moscennoetesfonno quando lo vedo indicare il dischetto. Alleluja alleluja! Ci hanno dato un rigore contro il Barcellona, mitico. Era pure espulsione ma vabbè, non si può avere tutto.
La gioia per il rigore viene subito rimpiazzata dall’ansia: perché il rigore poi lo devi tirà, lo devi anche segnà, sennò non serve poi a molto. Vedo Dzeko che porta il pallone da De Rossi e lo bacia. Daniele si prende sulle spalle la responsabilità di calciare un pallone del peso di 2332230982309 kili, a occhio. Ma può farlo solo lui, perché lui è il capitano, lui è DDR.
Tutto pronto, silenzio surreale. Tiro. Gol. Esultanza pazzesca. Minuto 57’, Roma 2- Barcellona niente. Manca un gol, senza subirne, per confezionare l’Impresa (con la I maiuscola, perché nella storia della Champions solo due volte è successo che una squadra ribaltasse una partita partendo da tre gol di svantaggio. Due volte.).Embed from Getty Images

Ho un’ansia che mi divora, mi mangio le unghie, poi inizio ad addentare la pelle, mi ferisco.
Uno si aspetterebbe una crescita dei blaugrana invece niente, continua tutto come da copione dei sogni: si attacca, cercando il gol che manca a completare l’opera. Ricordo, con enorme paura ancora adesso, un tiro centrale di Messi. Ma solo quello.
Noi abbiamo tre occasioni: un tiro pericoloso di Nainggolan, un colpo di testa di De Rossi fuori di pochissimo e la clamorosa occasione di El Shaarawy, con Ter Stegen che miracoleggia versione Gesù e strozza l’urlo in gola. Passano i minuti, il tempo stringe ma si canta senza sosta.

Minuto 82’, calcio d’angolo dalla bandierina tra “settorino” e Monte Mario. Batte Under. Pallone forte e teso sul primo palo, spunta Manolas. Il tempo si ferma, io ricordo di aver vissuto quell’attimo quasi al rallentatore, perché lo sapevo che stava per entrare, lo sapevo perché si vedeva che l’impatto con il pallone era stato quello giusto. Urlo col fiato che ho in gola, ma duro pochi secondi, perché subito dopo mi accascio sul mio seggiolino, mentre lo sconosciuto alle mie spalle mi stava abbracciando quasi strozzandomi. Ho un malore, mi gira la testa, mi sento quasi svenire. Mio fratello e Leo mi danno due pacche sulle spalle, mi mangio due caramelle, sento di riprendermi un filino. Ho pensato di avere un infarto e chissà, forse piccolino ma l’ho avuto.Embed from Getty Images

Dal minuto 83 cambia tutto e si piomba inevitabilmente nella paura. Eh sì, paura incredibile. Perché avevamo il sogno in mano, lì a pochi minuti di distanza, ma se loro avessero segnato sarebbe svanito, come tante, troppe volte accaduto nella storia romanista. Ci abbracciamo uno con l’altro cercando di scacciare via ogni pensiero, cantiamo ancora più forte per sconfiggere ogni imput negativo, guardiamo l’orologio ogni 10 secondi sperando che il tempo scorra rapidissimo.
E ovviamente, dopo un match in cui erano a stento scesi in campo, quelli si ricordano di essere il Barcellona e creano più occasioni negli ultimi 8 minuti più 4 di recupero che in tutta la partita. Quello più terribile è il pallonetto di Dembelè: immaginate di vederlo da dove ero io, lontanissimo, e osservare il pallone che scende, scende, scende. Ma poi va fuori. E allora esultanza come un gol. E allora dai che non possono togliercela questa partita, stavolta no, stavolta è quella giusta.

Lancio lungo del loro portiere, rinvio della nostra difesa, ma era fuorigioco.  Dovrebbe essere finita, ci guardiamo uno con l’altro, ao daje sto recupero è finito dai, cioè su. Inizia a salire l’”oooooo” che accompagna i grandi momenti, i fine match, gli ultimi palloni. Calcio lungo, tutti a guardare l’arbitro, che guarda l’orologio, si porta il fischietto alla bocca e decide che è il momento. Tutti a casa. Loro a casa.

Roma ha vinto, Roma ha vinto, Roma ha vinto davvero. Mi sono scese le lacrime mentre in una sorta di orgia mi abbracciavo con mio fratello, Leo, tutti gli sconosciuti intorno a me, mischiati uno sopra all’altro, a urlare, ridere. Increduli ma posseduti da una gioia indefinibile, inarrivabile, totale. Una goduria vera, reale, non solo mentale ma fisica, come il sesso più bello e dolce.
Il resto è storia, cori, video rivisti cento volte. Roma in semifinale di Champions.

10 aprile 2018. Quella sera in cui le divinità del calcio hanno deciso che anche noi giallorossi, spesso avversati da tutto, dalla sfortuna, dal nostro masochismo intrinseco, avessimo diritto di assaporare il nettare così dolce e inebriante di una impresa storica. Chi c’era potrà dire per tutta la vita di esserci stato; chi non c’era di averla vista, chi non l’ha vista mentirà e dirà di aver vissuto tutto quanto.
Quella partita è già storia della Roma e patrimonio dei suoi tifosi, memoria per le generazioni future, racconto per i figli e poi per i nipoti. Emozione chiusa nel cuore ma pronta a essere rivissuta all’occorrenza. Conforto nei momenti tristi. Aneddoto sempre buono. Pezzetto di vita.
Perché è stata la notte in cui i nani hanno battuto i giganti, le regole si sono sovvertite, i sogni si sono avverati.

Viva la pazza gioia di essere romanisti.Embed from Getty Images