Subito dopo il gol del 3-3, ieri sera hanno iniziato a girare immagini che nessun tifoso della Roma avrebbe voluto vedere. Immagini preoccupanti, che parlerebbero benissimo da sole, ma che è doveroso descrivere. Mentre Kumbulla si rialza dalla porta in cui è planato insieme alla palla del pareggio e fugge a esultare, inseguito da mezza squadra, al centro dell’area resta un uomo solo. Che non si unisce ai compagni, ma va nella direzione opposta. Volte le spalle, del tutto indifferente, ai ragazzi che dovrebbe guidare in virtù della fascia che porta al braccio. Edin Dzeko non si unisce all’esultanza, ma volta le spalle alla Roma, lasciandosi andare anche a un brutto gesto di frustrazione. L’ennesima dimostrazione di quanto il bosniaco sia un corpo estraneo nella Roma che era destinato a lasciare.
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Chissà quali pensieri frullavano nella testa di Edin Dzeko mentre scagliava in aria quei pugni così pieni di rabbia. Forse la delusione per un risultato acciuffato in extremis dalla squadra di cui è prigioniero. Magari pensava a quella fascia legata al suo braccio, già pesante di suo, resa ancor più pesante da responsabilità che evidentemente non vuole. O forse alla prima giornata di campionato, alla comoda panchina di Verona su cui si è seduto in attesa di prendere un aereo o un treno verso lidi più settentrionali di quelli romani. Con la testa bassa e gli occhi tristi di chi non vede l’ora di disfarsi dei colori giallorossi per indossarne altri, meno vistosi ma decisamente più prestigiosi. Nella fattispecie, il bianco e il nero di una squadra che non è più solo una squadra. È l’allegro parco giochi del Maestro e, al contempo, l’inesorabile sol dell’avvenire calcistico.
Di cui Edin Dzeko sarebbe stato custode e portabandiera. Giostraio e guerriero. Vertice ideale di un gioco talmente rutilante da non necessitare di numeri e schemi, teleguidato com’è dallo strabordante carisma del capo giostraio nonché ideologo della rivoluzione. Una rivoluzione cui Edin Dzeko è costretto ad assistere dalla cella giallorossa in cui è rinchiuso. Edin Dzeko il dissidente, il fuggitivo, il prigioniero dagli occhi tristi di una squadra in cui, per l’ennesima volta, ha dimostrato di non voler stare. Con quei pugni scagliati a fendere l’aria mefitica di metà classifica, dalla rabbia di veder spiccare il volo a chi l’ha voluto tanto, inseguito a lungo e mancato di un soffio. Non solo il rivoluzionario parco giochi bianconero, ma anche l’impressionante artiglieria nerazzurra o la perfetta macchina rossonera. Altri rimpianti di una carriera che, è sotto gli occhi di tutti, Edin Dzeko voleva chiudere altrove.